Doom: The Dark Ages e il rischio dell’oblio digitale

Quando i giochi non lasciano traccia: un campanello d’allarme per la memoria videoludica
Un nuovo Doom sta arrivando. Ma mentre i fan festeggiano per le prime indiscrezioni, una notizia passata quasi inosservata solleva un dubbio inquietante: su console, il gioco avrà pochissimi dati salvati direttamente sul disco.
In altre parole, Doom: The Dark Ages sarà principalmente uno shell che scarica contenuti da internet, aggiornamenti e probabilmente anche parte dell’esperienza base. Una struttura ormai comune nei tripla A moderni, certo. Ma che succede quando, tra dieci o vent’anni, quei server non esisteranno più?
Videogiochi effimeri: quando il futuro non ha memoria
Per chi ama il retrogaming, la questione non è nuova: già oggi è difficile, se non impossibile, rigiocare a titoli digital-only delle generazioni PS3, WiiWare o Xbox Live Arcade. Figuriamoci fra trent’anni, quando il rischio è che giochi interi spariscano, lasciando solo un’icona vuota nella dashboard e tanta amarezza.
L’idea di un Doom, gioco che ha fatto la storia della conservazione digitale grazie alle sue mod, porting e community devotissime, che non può essere archiviato in modo completo, fa un certo effetto. Sembra quasi una beffa. Come se una pergamena medievale fosse scritta con inchiostro che svanisce col tempo.
Preservare il passato, oggi
Il caso di Doom: The Dark Ages dovrebbe accendere un faro sul tema della preservazione videoludica. Non si tratta solo di nostalgia, ma di cultura. I videogiochi sono diventati un medium espressivo e storico, e come tali andrebbero trattati. Un libro non può essere ristampato se l’originale svanisce. Un film non può essere restaurato se non c’è la pellicola. E un gioco non può essere emulato se non esiste più nemmeno il codice base.
Fortunatamente, grazie a community di appassionati, progetti museali e archivi digitali (come Internet Archive, ScummVM, MAME o il Video Game History Foundation), una parte del patrimonio videoludico continua a vivere. Ma senza il supporto attivo di publisher e sviluppatori, tutto questo rischia di restare solo una corsa contro il tempo.
Se negli anni ’90 bastava un floppy o una cartuccia per possedere davvero un gioco, oggi la situazione è più complessa. I titoli sono vivi, mutabili, aggiornabili. Ma anche fragili. E quando il futuro del videogioco diventa troppo volatile, dobbiamo fermarci un attimo e chiederci: cosa rimarrà da tramandare?
Forse, il vero “Dark Age” di Doom non è quello medievale, ma quello digitale che rischia di avvolgere i giochi stessi, trasformandoli in esperienze evanescenti.